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Cara Michela, cambia la legge su anoressia

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Alla commissione Affari costituzionali della Camera giace, non ancora calendarizzata, una proposta di legge su bulimia e anoressia. Tra le prime firmatarie ci sono Michela Marzano, Mara Carfagna, Titti di Salvo, seguono numerose altre firme di deputati e deputate di tutti gli schieramenti. L’iniziativa è lodevole, perché tenta di sollevare un problema enorme, che in Italia viene spesso sottovalutato. La bulimia e l’anoressia – come c’è scritto nell’introduzione – «sono diventate nell’ultimo ventennio, una vera e propria emergenza, una piaga che attraversa tutti gli strati sociali». In Europa, sottolineano le firmatarie della proposta, gli studi sono ancora scarsi, ma secondo «l’American psychiatric association i disordini alimentari sarebbero la prima causa di morte nei Paesi occidentali». Sotto scacco ragazze tra i 15 e i 18 anni, ma ormai si parla anche di giovani sotto questa fascia d’età. La morte è l’atto finale di un malessere profondo: parte dalla non accettazione del proprio corpo e diventa il sintomo di problemi spesso molto più complessi legati all’inconscio, alla crescita, alla propria identità.

Per questo la proposta di legge non convince assolutamente quando all’articolo 1 – un articolo che rischia di esserne il simbolo – parla di reati e di una modifica del codice penale (articolo 580 bis). Secondo questa norma «chiunque, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, istiga esplicitamente a pratiche di restrizione alimentare prolungata, idonee a provocare l’anoressia, la bulimia o altri disturbi del comportamento alimentare, o ne agevola l’esecuzione, è punito con la reclusione fino ad un anno e con una sanzione pecuniaria da 10mila euro a 50mila euro». Se la persona colpita ha meno di 14 anni, la pena si raddoppia e si raddoppiano anche le sanzioni.

Poco importa, letto questo articolo della legge, che dopo si parli di un piano d’intervento con «azioni e iniziative volte a prevenire e diagnosticare precocemente», oggi forse il punto più debole di tutta la vicenda, essendo spesso i medici non abbastanza preparati a riconoscere e quindi ad affrontare con gli strumenti adeguati i disturbi alimentari. Anche questi punti che potrebbero essere positivi sono inficiati da quel primo articolo, dall’ossessione di tradurre in termini di codice penale tutto ciò che attiene al corpo e ai comportamenti più in generale.
In questi anni, in Italia, ma non solo, abbiamo visto la cultura punitiva entrare spesso in azione. Ma questa volta si tratta davvero di un fatto incomprensibile, non tanto e non solo dal punto di vista concettuale, ma soprattutto dal punto di vista di chi vuole risolvere il problema.

Secondo l’articolo 1 infatti si potrebbe e dovrebbe individuare, di volta in volta, un colpevole da spedire in galera e a cui far pagare la salata multa. Chi conosce la problematica, chi l’ha vissuta sulla sua pelle, sa che non è così. Se qualcuno istigasse atti lesivi dell’incolumità e della vita di un’altra persona, la legge già esiste. Ma non è questo il punto. La vera questione è capire che le motivazioni che spingono una ragazza, e oggi anche molti più ragazzi, a cadere in un drammatico rapporto con il cibo e con se stessi non sono riconducibili a una persona. I motivi sono almeno di due ordini.

Uno culturale. Riguarda i modelli di bellezza, l’immaginario che ci propongono tv, giornali, cinema e web. È l’annosa questione di una magrezza esibita come il massimo della felicità, di diete propagandate come panacea di tutti i mali, di taglie 40 come traguardi da raggiungere a tutti i costi. Pensare che punendo una persona, si possa affrontare tutto questo, non solo è da illusi, ma rischia di essere controproducente. La sfida da intraprendere è infatti quella culturale e dell’immaginario: liberare i modelli femminili, far capire alle ragazze e ai ragazzi che esistono vari tipi di bellezza e che la magrezza non può essere l’unico modello. Soprattutto se quella magrezza è malata, fonte di infelicità. Ma per fare questo non serve la modifica del codice penale, serve qualcosa di molto più alto, più importante: una sfida a tutto tondo per cambiare la testa delle persone.

L’altro motivo per cui non si può pensare che ci sia un ”colpevole”, anzi il ”colpevole”, è il fatto che anoressia e bulimia hanno una dimensione che non è solo sociale. Il disturbo alimentare è un sintomo, connotato socialmente e culturalmente, dentro cui si nascondono conflitti con le figure genitoriali, con se stessi, con il proprio Io. Dire c’è un responsabile che istiga e deve andare in galera è come sostenere che se il conflitto è con la madre, bisogna cacciare dietro le sbarre la genitrice. Ma soprattutto significa non dotarsi degli strumenti necessari per affrontare il problema. Fino a dieci anni fa nei consultori, ormai ridotti a presidi dei comitati pro life, c’erano fior fior di psicologici, psicoterapeuti e psicoanalisti. Pagando il ticket si potevano fare terapie serissime, che oggi invece si devono pagare a caro prezzo e che pochi si possono permettere. Perché non chiedere di rilanciare i consultori e con loro il ruolo di chi aiuta le donne e gli uomini a fare i conti con se stessi? Certo è una strada più complicata e di minor presa populista. Ma è sicuramente la strada più efficace rispetto invece all’individuazione di un colpevole, cioè di un capro espiatorio da denunciare come responsabile. Questa logica rischia di tamponare il problema, facendo sì che nell’ombra continui a crescere e a mietere vittime.

Come dicevamo all’inizio, la legge è ferma in commissione Affari costituzionali e non è stata ancora calendarizzata. Per questo abbiamo deciso di scriverne ora. Nella speranza che quell’articolo possa essere cancellato, facendo risaltare il senso importante dell’iniziativa. La filosofa e oggi deputata Michela Marzano ha avuto il coraggio anche di raccontare se stessa, la sua anoressia nel libro “Volevo essere una farfalla” (Mondadori, pp. 210, euro 17,50). Non tutte hanno avuto la stessa forza, non tutte hanno saputo dare voce a un’esperienza così drammatica. Lei lo ha fatto. Per questo siamo convinte che capirà queste ragioni e proverà ad ascoltarle.

Qui la risposta di Michela Marzano


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